L'amministratore "disonesto".

 

La parabola dell'amministratore “disonesto”.

 

Questa parabola riportata all'inizio del capitolo 16 del Vangelo di Luca è sicuramente la più difficile tra tutte da interpretare.

Sembra una “prova di esame” che Cristo ci ha lasciato e che ci sottopone, appartenente al filone del:

“Avete capito tutte queste cose? Gli risposero: Sì” (Matteo 13:51).

Bene! Se avete capito risolvete un po’ questa!

Sembra anche un concentrato di tutti gli insegnamenti di Cristo per l'Uomo.

 

Cristo parla ai suoi discepoli (verso 1), ma tra i suoi ascoltatori vi sono anche dei Farisei (verso 14).

 

I personaggi in ordine di apparizione sono: il ricco padrone, l'accusatore (uno o più non è specificato), l'amministratore, due debitori del padrone.

Nelle varie spiegazioni che si trovano molti danno per scontato che questo amministratore sia un disonesto, ma è proprio così?

 

Dell'accusatore non sappiamo niente. Non ha portato prove o dimostrazioni di quanto afferma, tanto che il ricco rivolgendosi all'amministratore gli dice: “Cos'è questo che sento dire di te?”.

Il ricco licenzia l'amministratore sul “sentito dire” (???).

 

“Che farò? Poiché il padrone mi toglie l'amministrazione.”

 

Questo amministratore è con probabilità un anziano, che non ha più né l’agilità fisica per zappare, né quella mentale per mendicare. Se avesse potuto sarebbe stato disposto anche ad andare a zappare o a mendicare, accontentandosi di qualche spicciolo.

Grande segno indicativo di profonda umiltà.

Questo è il primo aspetto importante: se l'amministratore pensa che dovrà andare a zappare o a mendicare significa incontrovertibilmente che non aveva messo da parte neppure un soldo. Era un amministratore “povero” (quindi onesto e leale), e nell'espletare la sua funzione per il ricco padrone non aveva tenuto per sé neppure una piccola parte del suo denaro. Aveva lavorato gratuitamente. Questo depone completamente a favore di questo amministratore (cosiddetto) “disonesto”.

 

Ma qui già tutti noi, ed ecco il punto, ci siamo fatti influenzare (ed imbrogliare) da un’accusa senza basi e dal giudizio del ricco padrone.

 

Mettiamoci un po' nei panni di questo amministratore.

Chi di noi non mostrerebbe un po' di risentimento se il nostro superiore ci dicesse: “Ti licenzio perché ho sentito dire che non svolgi il tuo dovere come dovresti”?Non cadiamo nella “trappola” di dare per scontato che questo amministratore sia un disonesto e cerchiamo di capire se lo è veramente oppure no.

Qui siamo davanti ad un'accusa, ed un'accusa senza prove.

Punto primo: un'accusa (anche ammesso che ci siano delle evidenze) è automaticamente sinonimo di colpevolezza dell'accusato e quindi di conseguente condanna?

Certo che no!

Punto secondo: è pacifico che l'accusato debba poter avere accesso alla sua difesa, e che fino a quando il giudice (che non può essere il ricco padrone, ma un vero e proprio Giudice) non emette il verdetto egli è da ritenere innocente. Questa è la base di tutto l'impianto giuridico in tutto il mondo, mi sembra.

L'amministratore (innocente fino a prova contraria) era considerato dal ricco padrone solamente in funzione del denaro che portava alle sue casse, e non in quanto essere umano, e leale essere umano.

Se è così abbiamo già un punto a favore dell'amministratore, un punto a sfavore del padrone e uno a sfavore dell'accusatore.

 

L'amministratore non controbatte all'accusa. Significa che è colpevole? Certo che no! Non controbattere non è sinonimo di colpevolezza, infatti neppure Cristo controbatte ai Farisei, invece dice loro che se avesse parlato non avrebbero ascoltato e se avesse fatto loro delle domande questi non avrebbero risposto. Quindi no! Non controbattere non è ammissione di colpevolezza, ma quando ti trovi davanti ad un vero e proprio giudizio di colpa già emesso a priori (l'amministratore è già stato licenziato dal padrone, senza possibilità di appello) controbattere è del tutto inutile.

Direi che questo è un altro punto a favore dell'amministratore.

Cosa fa l'amministratore?

Chiama i debitori del padrone in modo molto discreto, uno per uno, in modo che il primo non sappia del debito del secondo, il secondo del terzo ecc... e c'è questa scena:

l'amministratore chiede al primo debitore quanto doveva al ricco padrone.

Un momento: l'amministratore non sapeva neppure lui quanto il creditore doveva al padrone? Non c'era niente di scritto? Sembra un assurdo, ma vediamo il resto.

Con l'altro debitore la scena si ripete, poi presumibilmente anche con il terzo, il quarto ecc… anche se non sono menzionati.

Che tipo di rapporto aveva tenuto questo amministratore con i debitori del suo padrone?

Aveva in effetti, fornito cento barili di olio ad uno e cento misure di grano all'altro senza far loro firmare nessun documento, e senza neppure tenerne nota, tutto sulla fiducia (e probabilmente questo è il motivo per il quale l'accusatore lo aveva denunciato al ricco padrone).

Se da una parte si può obiettare su un comportamento apparentemente troppo superficiale dell'amministratore, dall'altra dovremmo constatare che il rapporto tra l'amministratore e i debitori era di grande umanità, l'amministratore dimostra di essere stato fino a quel momento un buon padre per i debitori, basando il loro rapporto sulla reciproca stima e fiducia.

Il loro rapporto era basato sulla loro parola.

Mi sembra un aspetto positivo!

A questo punto i debitori avrebbero potuto dirgli: “Se hai problemi con il padrone sono fatti tuoi, io non firmo proprio niente”, e l'amministratore sarebbe rimasto con niente in mano!

Invece no! Firmano l'impegno a pagare al padrone una parte del debito che avevano (è vero che è una parte, ma avrebbero potuto tenersi tutto), proprio in virtù e in rispetto della stima che l'amministratore si era guadagnato presso di loro in passato.

Altro punto a favore dell'amministratore.

L'amministratore aveva favorito i debitori più che il ricco padrone (questa è la sua “colpa”!), probabilmente perché i debitori erano più nel bisogno di quanto non lo fosse il ricco padrone (a me sta proprio simpatico questo amministratore!), in un certo senso “aveva amministrato le (ingiuste?) ricchezze” del padrone in favore dei debitori.

 

“Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, poiché aveva agito con scaltrezza.”

In qualunque modo si vogliano intendere queste parole non c'è modo di capire il perché questo padrone loda l'amministratore.

Se noi avessimo un debitore che ci deve centomila euro, e il nostro amministratore ce ne porta solo cinquantamila, saremmo contenti? Loderemmo il nostro amministratore oppure lo denunceremmo al tribunale perché ci ha fatto perdere cinquantamila euro, dei quali, con tutta probabilità, una parte finirà nelle sue tasche?

Non c'è una spiegazione logica a questa “lode”, eppure qui abbiamo il padrone che loda l'amministratore, si potrebbe dire “contro il suo stesso interesse”. Perché?

 

Si presuppone allora che il ricco padrone, nella sua enorme ricchezza, non avesse neppure nessuna idea di chi fossero questi (ed altri) suoi debitori e quanto gli dovessero. Questi dati erano registrati, o almeno avrebbero dovuto essere registrati, nei libri dell'amministratore.

Infine l'amministratore torna dal padrone con le ricevute dei crediti che egli, in quel modo, poteva vantare sui suoi debitori. Il ricco è contento e ne rimane soddisfatto.

I soldi voleva e i soldi ha avuto.

Ha dimostrato completa mancanza di fiducia nel suo amministratore rasentando il disinteresse più assoluto nei suoi riguardi. Improprio dire che non si fida, è che non gli importa assolutamente niente di lui in quanto persona.

Non lo loda per la sua disonestà verso di lui, naturalmente, ma per il denaro che porta alle sue casse. Da tener presente che Cristo sta parlando ai Farisei.

 

Qui finisce la parabola ed inizia una non meno tortuosa spiegazione della morale.

Un aspetto interessante: ad entrambi i debitori è fornita una misura di un certo bene equivalente a “cento”.

Perché ad entrambi proprio “cento”?

Forse perché ha il significato di “totalità”, nello stesso modo in cui ad un certo servo vengono forniti cinque talenti (che erano il massimo che potesse gestire e far fruttare), ad un altro due e infine uno.

Il “cento” non è qualcosa che “abbiamo”, ma quello che “siamo”.

Ognuno di noi è quel “cento”, cioè la completezza di sé stesso, e tutto questo “cento” appartiene al Padrone, appartiene a Dio che ce l'ha dato. Tutti i beni di cui ognuno di noi dispone ci sono stati donati dall'Alto.

Non soltanto le ricchezze materiali, ma l'intelligenza, la capacità organizzativa, l'acutezza negli affari, la salute, gli anni di vita e tutto il resto.

Dio, a differenza del padrone ricco della parabola, sa perfettamente quanto gli dobbiamo, gli dobbiamo tutto, perché è tutto suo, tutto quello che possediamo e che siamo è suo.

Proviamo a trasferire questa parabola in termini sia spirituali sia terreni.

L'Amministratore (questa volta con la “A” maiuscola) ci chiede di essere onesti e di restituire al padrone, cioè Dio, una parte di noi stessi. Questo è il motivo per cui ad un creditore richiede il cinquanta per cento e ad un altro chiede il venti per cento, secondo le loro capacità e situazioni, proprio come nella parabola dei talenti.

Ognuno di noi dovrebbe restituire con gratitudine una parte di sé stesso a Dio. Non si tratta semplicemente di soldi, si tratta proprio di noi stessi.

 

L'Amministratore altri non è che Cristo!

 

Nella parabola l'amministratore è accusato da gente che sta nell'ombra (non si sa chi siano) di aver commesso illeciti nella gestione della sua amministrazione.

Nella realtà questo è il Cristo accusato davanti ai Farisei di travisare la Legge e la Tradizione degli antichi, perché pranza con pubblicani e si accompagna a peccatori e prostitute, per non parlare della “violazione” del sabato, giorno in cui “osa” guarire malati!

Il ricco padrone della parabola sono loro, sono proprio loro, i Farisei.

I debitori chi sono? Siamo noi!

Cristo, in quanto Amministratore dei beni di Dio, chiede ad ognuno di noi di restituire una parte di noi stessi a Dio, non si tratta di soldi o cose, ma proprio di noi stessi in quanto persona.

Cosa gli risponderemo? “Io non firmo niente e mi tengo tutto”? E' gratitudine questa?

 

Ci potremmo chiedere: nel testo del Vangelo c'è scritto chiaramente “l'amministratore disonesto” (versetto 8). Cristo è disonesto?

No di certo! Ma questa era l'accusa che gli era mossa.

“Disonesto” per rimanere sul morbido, perché di fatto lo hanno accusato di compiere i miracoli con l'aiuto di belzebù!

Poi forse c'è anche un problema di traduzione, perché il testo originale in greco dovrebbe essere tradotto non come “amministratore disonesto”, ma come “amministratore dell'ingiustizia”, dove il senso sarebbe “amministratore della ricchezza ingiusta” (del ricco padrone?).

 

Allo stesso modo della parabola del giudice iniquo qui abbiamo il ricco padrone che nella realtà, cioè in quel momento preciso, rappresenta i Farisei che amavano il denaro (verso 14), e più in generale tutta la casta sacerdotale, che gravava di grandi pesi il popolo ma loro non toccavano quei pesi neppure con un dito, e abbiamo lo stesso ricco padrone che in senso spirituale ma inverso, e sproporzionatamente più grande, più giusto, più buono del ricco padrone terreno della parabola, è Dio (come nella parabola del giudice iniquo).

 

Se noi siamo debitori di qualche barile d'olio verso quel ricco padrone terreno, quanto più saremmo debitori verso Dio di tutto quanto abbiamo ricevuto da Lui?

 

Nel chiamare a sé i debitori uno ad uno e farsi dire da loro a quanto ammonta il loro debito con il Padrone (cioè Dio), il cattolico potrebbe anche intravederci il Sacramento della Confessione, dove la parte mancante del debito, quella che ai debitori viene fatta di “sconto” , viene compensata dal Sangue di Cristo (se i “debiti” sono i nostri peccati per mezzo di che cosa e di chi ci sono perdonati? Per mezzo del Sangue di Cristo! Cristo ha già pagato per i nostri debiti).

 

“E il padrone lodò l'amministratore” (vs. 8).

Fuori della parabola non è il ricco padrone terreno che loda il suo amministratore, ma il Padre Celeste, che loda il vero Amministratore, Gesù Cristo, perché con il suo operato (e sacrificio) ha salvato l'Uomo dal peccato, pagando con il suo sangue tutta quella parte del debito dell'Uomo con Dio che egli (Uomo) non sarebbe mai stato in grado di compensare.

 

Poiché Cristo sta parlando ai suoi discepoli (verso 1), ma anche i Farisei sono lì ad ascoltarlo (verso 14), il significato profondo di questa frase, e diretto a loro, è: il Signore Iddio mi rende lode con gioia per le opere che compio tra gli uomini, al contrario di quello che fate voi, che mi volete morto!

 

Questo sarebbe il senso immediato della parabola, che tuttavia continua ad avere delle zone di ombra.

 

Questa ad esempio:

 

“I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.”

 

La Luce è Cristo (“Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo". Giovanni 9:5), i “figli della luce” sono tutti coloro che credono in Cristo (“Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce". Giovanni 12:36), e i “figli di questo mondo” sono tutti gli altri.

 

Significa che chi segue l'insegnamento di Cristo è uno sciocco e/o un sempliciotto?

Non in questi termini!

E' qualcuno che rifiuta scientemente di usare metodi mondani, cioè metodi disonesti, e che quindi impedisce a sé stesso di ottenere tutti quei risultati (temporanei) che invece sono accessibili ai figli del mondo.

Ma il fine non giustifica i mezzi! Mai!

 

Altro rompicapo è il verso 9:

 

“Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.”

 

E' un invito di Cristo a commettere illeciti per poi darne il ricavato in beneficenza? Assurdo!

Forse Cristo suggerisce di riciclare denaro sporco offrendolo per una giusta causa? Anche questa seconda interpretazione non regge.

Cosa è allora questa “disonesta ricchezza”? Sarebbe chiaro se per “disonesta ricchezza” si potesse intendere la “ricchezza che non ci appartiene”, perché in questo caso, come detto sopra, indicherebbe la nostra stessa vita e tutto quello che abbiamo.

 

E gli “amici”? Chi sono questi amici che abitano in “dimore eterne”?

Probabilmente sono tutti i “beati” di questo mondo (per avere la lista completa leggere Matteo 5:3-10).

 

Quando “la ricchezza verrà a mancare” (se consideriamo tale ricchezza come tutti i doni che abbiamo ricevuto da Dio, vita inclusa), significa la morte dell'uomo, ed è a questo uomo che i “beati” mostreranno la loro riconoscenza se egli avrà “investito” in loro favore mentre erano in Terra, almeno in parte la sua ricchezza ingiusta (cioè che non è sua, non ne è il padrone ma l'amministratore).

 

Verso 10:

 

“Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto”.

 

Che cos'è il “poco”?

Il “poco” è la nostra vita, quello che abbiamo e quello che siamo. Se abbiamo restituito al legittimo proprietario (Dio) almeno una parte di questo “poco” saremo dichiarati “fedeli”, a differenza di coloro che invece si sono voluti tenere tutto per sé che avranno meritato il titolo di “disonesto”.

 

I versi 10-12: la “ricchezza vera” è quella eterna, che sarà donata ai fedeli, e che sarà “vostra” (non più semplici amministratori ma padroni a tutti gli effetti).

 

Infine il verso 13, il quale traccia una linea di demarcazione molto netta e definitiva: non esiste alternativa, o Dio, o Mamon.

 

 

 

...almeno questo è quello che leggo io in questa parabola dell'amministratore disonesto: la mia “tesi” di questa “prova d'esame”!